Viviamo un tempo eccezionale, purtroppo in una accezione negativa. L’epidemia da Coronavirus si è rapidamente diffusa tanto da divenire presto pandemia.
L’Italia è stata colpita prima e più duramente di tanti altri Paesi. Altri che ci guardavano con distacco e giudizio malevolo, rapidamente si stanno trovando nelle nostre medesime condizioni (e forse presto peggio di noi). Dopo un primo momento di sbandamento e confusione si è compreso come la misura più efficace per contrastare la diffusione del virus (oltre alla ricerca) fosse l’isolamento: dapprima dei malati, pian piano di tutta la popolazione.
È una situazione finora inimmaginabile: tutti il più possibile a casa. È giusto, va fatto, va rispettato (e speriamo serva presto per rallentare e bloccare la diffusione del virus). Ma in una situazione come questa bisogna provare comunque a ricordarci di chi sta peggio.
Qualcuno ha parlato del virus come di una odierna “livella”, ricordando Totò. Ma non è così. Non lo è tra gli Stati che hanno sistemi sanitari diversi tra loro e conseguenze diverse sulla popolazione e non lo è nelle nostre città. Se questa situazione ci mette tutti dinanzi ad alcune domande di fondo, non ci rende tutti uguali.
Già il nome della misura riassuntiva di tutte le misure lo rivela: #iorestoacasa! Giusto, ad avercela una casa, risponderebbero però in coro le migliaia di senzatetto del nostro Paese. E non solo loro. Tanti non hanno le ampie e belle case che sbirciamo sui social degli altri in questi giorni, tanti ancora non hanno le belle e casinare famiglie a fargli compagnia.
Lo abbiamo capito sin da subito che non funzionava l’idea della “livella” dalla vicenda delle carceri. Tutte sovraffollate, tutte senza presidi (tra cui le introvabili mascherine), detenuti e operatori (sanitari e polizia penitenziaria). E da un giorno all’altro senza colloqui. Certo le rivolte non hanno fatto che peggiorare le cose: un numero incredibile di morti, feriti, trasferiti e danni che peseranno sulla stessa popolazione carceraria.
Ma prima di puntare il dito giudicante contro i detenuti inviterei tutti a riflettere su cosa vuol dire vivere questa situazione in quelle condizioni (e magari a pensare alle reazioni dei “bravi cittadini” che hanno preso d’assalto stazioni e autostrade per scappare dal Nord – e andare a infettare il resto del Paese – o a quelli che hanno assaltato i supermercati…).
Il carcere è stato un campanello d’allarme drammatico. Ma un avviso. La chiusura delle scuole ha lasciato a casa migliaia di bambini e ragazzi disabili: a scuola avevano un sostegno, a casa no. Non è banale: immaginatela una famiglia con un bambino disabile tutto il giorno chiusi dentro casa. Per rimanere alla disabilità, tanti sono rimasti senza assistenza domiciliare, nella precarietà di comprendere come organizzarsi.
C’è poi l’universo degli anziani, connesso a doppio filo con la grande malattia del nostro tempo: la solitudine. Pensiamo solo a Roma: le famiglie con un solo membro sono il 44%. Gli anziani soli sono 250.000 su 626.000. Roma è città di soli e anziani: gli ultrasessantacinquenni sono il 21,6% e gli ultraottantenni il 6,7%, quasi 200.000. Molti anziani sono poveri: 150.000 con un reddito inferiore agli 11.000 euro. Tra gli ultra 65enni il 30% è solo. Se si aggiungono le solitudini in due, senza figli e famiglia, arriviamo al 66% di anziani che vivono in isolamento o solitudine con tutte le vulnerabilità che ne conseguono. Cosa vuol dire per loro #iorestoacasa?
Ci sono poi i tanti che vivono un po’ alla giornata: lavoretti, aiuti, elemosina, solidarietà ricevuta. Quando tutto intorno si ferma, non hai più alcun sostegno e la vita si fa drammatica. Potremmo continuare (pensiamo a cosa possa voler dire #iorestoacasa in un campo rom o in un centro di accoglienza…).
Ma vorrei terminare parlando proprio dei senza casa. Ieri un mio amico mi ha detto: “non ho resistito, gli ho risposto male a un signore. Quando mi ha detto ‘non stia in giro, vada a casa’, non mi sono tenuto. Gli ho mostrato il mio zaino e gli ho detto ‘quella è casa mia’…”. Il tema del disagio abitativo è drammatico e quello dei senza dimora oggi lo è all’ennesima potenza. Loro lo sognano un “isolamento domiciliare fiduciario”.
Gli sforzi delle autorità sono tutti giustamente protesi sull’emergenza sanitaria – e il nostro grazie deve andare soprattutto agli operatori da giorni in prima linea – e su quella economica: sono le priorità che riguardano tutti e la tenuta del nostro Paese.
Ma ognuno di noi può fare qualcosa di più per chi ha di meno: la spesa a un vicino anziano, telefonare a chi crediamo più solo o in difficoltà, sostenere chi si occupa anche in questo tempo dei senza dimora donando soldi, cibo, aiuto concreto. Nella difficoltà, rafforziamo solidarietà e sostegno: #iorestoacasa per bloccare il diffondersi del Covid-19, ma nel frattempo sviluppiamo una fantasia della solidarietà che non dimentichi nessuno.